Non basta “lasciar parlare la storia”. Una lettura critica di SanPa

Franco Palazzi
14 min readJan 29, 2021
IMMAGINE: TRATTA DA “SANPA”, NETFLIX, 2021

Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra” scriveva Benjamin nelle Tesi sul concetto di storia. Ho ripensato spesso a quelle parole guardando SanPa, cinque puntate prodotte da Netflix per la regia di Cosima Spender. Frutto di un lavoro di ricostruzione imponente (180 ore di interviste registrate e 51 archivi consultati), SanPa racconta la discussa parabola di Vincenzo Muccioli, fondatore nel 1978 di San Patrignano, la più grande e nota delle “comunità terapeutiche” sorte in Italia per il contrasto della tossicodipendenza a fronte dei vuoti e delle contraddizioni dell’ordinamento giuridico del tempo. Osannato per il suo carisma e criticato per i metodi spesso autoritari che portarono a una serie di scandali, processi e sentenze, Muccioli è stato una delle figure mediaticamente più visibili degli anni Ottanta e dei primi Novanta.

Vista con gli occhi di chi è nato proprio in quel periodo, la docu-serie ha un effetto straniante. Fanno impressione le immagini che ricordano l’ampio sostegno popolare ricevuto dall’idea che (anche) con le catene si potessero “curare” le persone dipendenti da droghe, per giunta mentre si approvava la legge Basaglia, superamento della dimensione disciplinare del manicomio, e mentre ancora si percepivano i bagliori di uno dei movimenti politici più radicali della storia italiana, quello del ’77. SanPa ha, fra gli altri, il merito di sfatare l’apparente esotismo di quelle immagini, mostrandone i nessi di lunga durata con una retorica moralistica e ipocrita sugli stupefacenti che ancora si materializza, a decenni di distanza, nelle rare occasioni in cui il tema entra nella discussione pubblica. Ideologia dominante della «droga» l’aveva chiamata lo psichiatra Giovanni Jervis nel 1976, “stabilita, diffusa, resa egemonica da chi non ha mai introdotto nel proprio organismo «droghe» né leggere né pesanti […] e non sa neppure bene cosa siano”. Ad essa era da ricondursi, a suo parere, non solo l’“indignazione intollerante” dei perbenisti, ma anche il “paternalismo umanitario” di quanti volevano prendersi sì cura dei tossicodipendenti, ma a patto che essi si infantilizzassero, scivolassero in uno stato di minorità.

La comunità creata da Muccioli era un esempio perfetto di questo approccio, che contrapponeva alla razionalità — a un tempo moderna e terribile — dello spazio manicomiale una sorta di ritorno mitico a un’inesistente età dell’oro, sostituendo all’onniscienza del clinico, al potere fondato sul sapere, non una più equa distribuzione del primo, ma un rifiuto pregiudiziale del secondo.

SanPa racconta anche questi aspetti, ma in maniera ambigua, lasciando spazio a interpretazioni opposte — una caratteristica di solito non problematica nell’ambito della fiction, ma certo più insidiosa per un documentario storico. Andando a scorrere la montagna di recensioni, infatti, si resta perplessi: c’è chi segnala il carattere volutamente chiaroscurale della serie, che lascerebbe lo spettatore libero di schierarsi sia fra i sostenitori che fra i detrattori di Muccioli (o magari nel mezzo); chi, come la stessa San Patrignano, afferma che sia stata fornita una lettura unilaterale e preconcetta del fondatore; chi, infine, scrive di un’oggettività illusoria nella quale l’intrattenimento resterebbe la priorità a scapito dell’approfondimento. Con un po’ di cinismo, verrebbe da dire che ognuno ha trovato il prodotto che cercava — che fosse uno da esaltare o da denunciare — e che il mercato ha soddisfatto quelle che erano delle preferenze pregresse. La concezione dietro agli episodi — profondamente rispettabile, ma credo in ultima analisi errata — sembra essere stata quella di “lasciar parlare la storia”, di fare un passo di lato rispetto a ogni esplicita presa di posizione.

Il problema, come scriveva Hayden White in The Historical Text as a Literary Artifact, è che una volta liberato il campo da narrazioni apertamente mistificatorie (il negazionismo è qui l’esempio perfetto), gli stessi identici fatti possono venire ricompresi in racconti storici di segno opposto, che collocano gli eventi all’interno di strutture di significato che sono sempre in qualche misura il frutto di una scelta. La storia, in altre parole, non è cronaca, enumerazione di avvenimenti — è dar loro un senso. Ciò non implica che non si possa scegliere tra esposizioni storiche migliori o peggiori (alcune includeranno i fatti più rilevanti senza sforzo mentre altre lo faranno in modo contorto; certe saranno logicamente coerenti, altre contraddittorie), ma rende la scelta più complessa, mai scontata. Prendere coscienza della componente inevitabilmente narrativa del fare storia, in altre parole, apre le porte, più che al relativismo, a una enorme responsabilità: quella di non essere schiacciati dal peso del passato e, al tempo stesso, di provare a ribaltarlo quando lo riteniamo necessario. Non a caso per White la tentazione ideologica più pericolosa consisteva nell’illudersi di poter essere perfettamente imparziali, nel non dichiarare a sé stessi e ai destinatari della propria narrazione che ci sarà sempre un elemento di letteratura in qualunque modo di fare storia.

Da questa prospettiva, la particolare cornice narrativa del documentario — scandita in nascita, crescita, fama, declino e caduta — agisce come un moltiplicatore di ambiguità. A un grado zero di interpretazione, l’andamento prima ascendente e poi discendente del racconto favorisce una lettura negativa del suo protagonista, che appare sconfitto dagli eventi stessi: è questo il tipo di dinamica che gli attuali vertici di San Patrignano non hanno gradito. A un livello più profondo, tuttavia, i titoli e la sequenza degli episodi richiamano la forma letteraria della tragedia, un genere che spinge lo spettatore a empatizzare con il personaggio al centro del dramma. In tal modo, il senso di straniamento prodotto dalla comparsa precoce degli aspetti problematici della concezione comunitaristica di Muccioli esce ridimensionato da quella che ha l’aria della tipica vicenda del padre fondatore, della figura larger than life che, a un suo semplice movimento, altera nel bene e nel male l’intero universo circostante. Da qui ciò che alcuni recensori hanno intravisto: un Muccioli quasi condannato a sbagliare per il mero fatto di essere stato un pioniere, l’intrepido esploratore di un mondo ignoto — torna alla mente Brecht: “Noi che abbiamo voluto preparare il terreno per la gentilezza/Noi non potemmo essere gentili”.

Tuttavia, non c’è nulla di inevitabile in questo schema tragico. Se si guarda alla perdurante importanza di San Patrignano ben oltre la morte del suo creatore si potrebbero anche vedere in atto, a seconda degli orientamenti, una commedia (tutto è bene quello che finisce bene) o quella conclusione grottesca che deriva dalla ripetizione di una situazione tragica — il noto “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa” di Marx. Del resto, se Muccioli era il sovrano di una piccola città-stato, con i suoi discorsi sulla parapsicologia e le abilità da sedicente medium poteva ricordare il buffo imperatore della fiaba di Andersen non meno che un re della tragedia classica. Né un tono farsesco dovrebbe per forza risultare bonario o assolutorio: quale colpa più grande potrebbe esserci, per la politica del tempo, che quella di aver lasciato tanta influenza a un buffone da commedia? (All’opposto, la tragedia non impiega che un attimo a divenire eulogia: ecco che scompare prematuramente un uomo troppo buono per questo mondo.)

Di fronte alla scelta di un modello narrativo, però, la mano autoriale sembra ritrarsi, quasi trincerata dietro alle testimonianze degli intervistati, che nel caso delle persone che hanno attraversato la comunità da tossicodipendenti o dei loro parenti rivelano una sensibilità e una forza d’animo che valgono da sole la visione di ogni episodio. Se da un lato questo arretramento aiuta a sottolineare l’importanza epocale del dare modo a voci censurate e inascoltate per decenni di raggiungere il grande pubblico (chi aveva provato a realizzare narrazioni non agiografiche di San Patrignano prima di questo documentario aveva trovato solo porte chiuse), dall’altro contribuisce a creare la sensazione che non esistessero modi alternativi di raccontare la medesima storia — quello che vediamo è infatti un insieme di risposte a domande delle quali non conosciamo il contenuto. Come ci ricorda Alessandro Portelli, “le fonti orali sono sempre il risultato di un rapporto a due, di un lavoro comune, cui prendono parte intervistato e intervistatore”. Dare la sensazione di “un flusso ininterrotto di narrazione spontanea”, allora, rappresenta “una pesante manipolazione”, fornendoci “l’impressione che quella persona racconterebbe sempre quella stessa storia con quelle stesse parole”. Ascoltando le riflessioni degli ex ospiti della comunità mi è tornata in mente la celebre frase di Dino Risi sui film di Moretti: “Quando vedo un lavoro di Nanni, mi viene sempre voglia di dirgli: spòstati e fammi vedere il film”. Ecco, perché non scostare un po’ la figura ingombrante di Vincenzo Muccioli e fare un racconto di San Patrignano che avesse al centro le esperienze personali di quante e quanti l’hanno attraversata in quegli anni, che tali esperienze avessero a che fare direttamente con Muccioli o meno?

Arrivo qui a quella che è forse la tensione fondamentale nel rapporto tra serialità “televisiva” e storia: il format di SanPa e di tanti prodotti simili conduce a puntare i riflettori su un’individualità che buchi lo schermo e attiri l’attenzione come una calamita a dimensione umana. Questo magnetismo narrativo sposta l’interesse di chi guarda su una polarità morale anziché politica: in gioco c’è la reputazione di una persona che fu molto influente, quindi toccherà invitare qualcuno che difenda a prescindere il suo buon nome — pazienza se questo implicherà far parlare di sostanze stupefacenti un noto anti-vaccinista come Red Ronnie. Eppure, se c’è una cosa che un documentario storico dovrebbe evitare è proprio la logica binaria da talk-show, quella par condicio che muove dall’assurdo postulato per cui la verità starebbe sempre nel mezzo — e così, fra il sostenitore degli asini che volano e colui che nega la loro esistenza, il conduttore o l’autore potranno limitarsi a calcolare la media aritmetica: è improbabile che gli asini volino, ma di certo sono straordinari saltatori e rimangono in aria a lungo. Perché non provare a mettere lo spettatore in condizione di formulare non una valutazione morale su una persona che non ha con ogni probabilità mai conosciuto, ma un giudizio politico sulla sua visione della società e le conseguenze che ne sono scaturite per le vite altrui?

Le persone intervistate hanno ottime ragioni per invocare la complessità della figura di Muccioli, perché ciò che viene implicitamente chiesto loro è una presa di posizione morale nei confronti di un uomo che ha per molte di loro (ma non tutte) reso la loro esistenza, in momenti diversi, significativamente migliore e significativamente peggiore. Quello della complessità, però, rischia di trasformarsi in un motivo depoliticizzante quando influenza l’architettura stessa del documentario. Da un punto di vista politico, infatti, non c’è sfumatura che tenga: la San Patrignano di Muccioli fu un’esperienza deleteria perché combinò la cura e il recupero dei e delle tossicodipendenti con degli elementi di violenza assolutamente non necessari (e anzi controproducenti) a quel fine, rendendo più difficile lo sviluppo di comunità preesistenti o nate durante i primi anni della sua attività. È senz’altro questo l’errore storico più evidente di SanPa: presentare un’alternativa manichea tra il metodo di Muccioli e la totale mancanza di assistenza in un momento in cui in Italia erano presenti decine di realtà, laiche e religiose, che prendevano gratuitamente in carico persone con problemi di droga senza per questo mancare di rispetto ai loro diritti fondamentali. L’eventualità, ripetuta fino alla nausea in molte recensioni della serie, che Muccioli abbia fatto “più bene che male” manca clamorosamente il bersaglio: al chirurgo che dimentichi il bisturi nell’addome di un paziente su dieci non si farebbero i complimenti per il suo apporto complessivamente positivo alla medicina — lo si porterebbe in tribunale.

Nel 1970 era sorta a Genova la Comunità di San Benedetto al Porto su iniziativa del parroco, don Federico Rebora, e di un prete già noto alle cronache locali, don Andrea Gallo. Quest’ultimo era stato in un primo momento allontanato dalla chiesa del Carmine e minacciato di trasferimento sull’isola di Capraia per aver criticato, durante un’omelia, le reazioni sdegnate dei benpensanti alla notizia della scoperta di una vicina fumeria di hashish. A conferma del carisma del sacerdote, una folla di parrocchiani si riversò per le strade di Genova, chiedendone il reintegro al grido di “Mi hanno rubato il prete”. Dieci anni più tardi Mauro Rostagno fondava in provincia di Trapani la comunità Saman e si impegnava in prima persona non solo nell’assistenza ai tossicodipendenti, ma anche nella lotta alla mafia che gestiva (e gestisce) il narcotraffico — tra l’altro a poca distanza dalla comunità, ad Alcamo, sarebbe stata scoperta la più grande raffineria di eroina d’Europa. Anche Rostagno, come Gallo, è un individuo di forte personalità: il suo programma di inchiesta sulla rete locale Rtc lo rende una piccola celebrità nella zona, ma — ricorda Enrico Deaglio in Raccolto rosso — “tutto questo tumulto — minacce, simpatia popolare, la sensazione che quell’uomo «andasse troppo veloce» — rimase chiuso a Trapani e i suoi servizi televisivi non vennero mai presi in considerazione da nessuno, tanto meno della Rai”. Rostagno sarebbe finito sulla cronaca nazionale solo per l’accusa infamante — rivelatasi presto infondata — di essere stato coinvolto nell’omicidio Calabresi. Il 26 settembre 1988 venne ucciso da Cosa Nostra, ma per due decenni le indagini sulla sua morte incapparono in depistaggi e vicoli ciechi, non lesinando illazioni che chiamavano in causa proprio il traffico di stupefacenti. Le sentenze che individuarono i responsabili, tra cui il boss Tommaso Virga, sarebbero arrivate solo a partire dal 2014.

La maggior parte delle comunità terapeutiche, ovviamente, non aveva alle spalle storie così drammatiche o clamorose. In uno studio apparso proprio nell’88, Maria Pia Lai Guaita ne passava in rassegna decine, alcune delle quali nate prima o nello stesso periodo di San Patrignano. Soprattutto nei primi anni, diverse di queste realtà ricorrevano a metodi pericolosamente simili a quelli di Muccioli, come segnalato da Cecco Bellosi prima in un libro e recentemente in una riflessione sulla scia del documentario targato Netflix. Altrettanto evidente, d’altra parte, è che esistessero, anche in alternativa al modello della comunità terapeutica, sensibilità e progetti radicalmente diversi, che si contrapponevano esplicitamente a quella sistematica colpevolizzazione delle persone tossicodipendenti che Vanessa Roghi ha raccontato con efficacia in Piccola città. Ciò in cui San Patrignano rappresentò davvero un unicum fu la mole di risorse economiche private, di approvazione mediatica e di amicizie influenti che si raccolse intorno alla figura di Muccioli; ma proprio per questo la mancata trattazione del contesto rende SanPa parzialmente vittima delle stesse dinamiche sensazionalistiche che pure a tratti riesce a contrastare.

Non aiuta, in questo senso, la mancanza nelle serie di esperti, di persone che forniscano alle vicende delle chiavi interpretative alla luce di qualche sapere specialistico: sia esso la storia contemporanea, la psichiatria, o la sociologia. Quando vengono intervistati dei professionisti (medici, magistrati, uno psichiatra forense) è unicamente per raccontare del proprio coinvolgimento diretto nella vicenda di Muccioli — non sentiamo mai il giudice fare una valutazione in punta di diritto, il medico citare uno studio clinico, o lo psichiatra andare oltre una sintesi alquanto generica di una vecchia perizia. Può accadere, certo, che qualcuno esperto di un dato campo venga a contatto con una realtà come San Patrignano — ma ciò che conta è il suo vissuto di uomo o di donna, facendo astrazione dai ruoli professionali o sociali. Una apparente — e impressionante — eccezione in proposito riguarda uno dei due studi quantitativi condotti sull’efficacia terapeutica della comunità, svolto da un’equipe dell’Università di Bologna e pubblicato nel 1994. Nella quinta e ultima puntata di SanPa, Fabio Cantelli (allora a capo della comunicazione della comunità) afferma che il campione per quello studio (composto da persone che avevano svolto un percorso di recupero a San Patrignano) venne selezionato dalla stessa organizzazione, con un palese conflitto di interessi e una distorsione dei risultati potenzialmente significativa. Paolo Negri, al tempo impiegato presso l’ufficio informatico della comunità, conferma che i dati forniti da Muccioli nelle sue apparizioni pubbliche erano sistematicamente errati. Dal momento che quell’indagine, così come la successiva, apparsa nel 2005, continua a figurare come “studio scientifico” sul sito della stessa comunità, viene da domandarsi perché non sia stato richiesto un qualche commento a coloro che l’hanno realizzata — che non figurano nemmeno fra le persone che hanno declinato l’invito a collaborare con il documentario.

Rinunciare a categorie interpretative esplicite, del resto, non significa sbarazzarsene una volta per tutte, ma solo farle rientrare in punta di piedi con esiti potenzialmente fuorvianti. Interessante in questo senso un intervento di Cantelli che compare in un momento nodale della prima puntata, nel bel mezzo di una serie di testimonianze che rimarcano da un lato l’indescrivibilità dell’esperienza delle droghe pesanti per chi non le abbia mai provate e dall’altro la sfiducia della comunità negli strumenti della psicologia, della psichiatria e della psicanalisi. A proposito della sua prima assunzione di eroina, Cantelli parla di “estasi personale che non aveva bisogno d’altro […] un’unità che non ha bisogno di nulla […] qualcosa di simile a quando si è stati nel grembo materno”. Come rivela un’intervista successiva all’uscita di SanPa, il riferimento dell’ex portavoce era tipicamente psicanalitico: si trattava di un “sentimento oceanico, come lo chiamava Freud”, dell’irraggiungibile “sensazione di totalità […] che tutti noi abbiamo provato nel grembo materno”. Cantelli si rifaceva quindi al confronto di Freud con l’opera di Rolland e anche, implicitamente, a una possibile lettura lacaniana della tossicodipendenza — come sostiene l’analista lacaniano Patrizio Peterlini: “Il soggetto, nel legame mortifero con l’oggetto-sostanza, basta a se stesso crogiolandosi in un godimento che non necessita della costruzione del fantasma”. La medesima psicanalisi di cui si era accettata a priori l’incapacità di assistere le persone che entravano a San Patrignano, insomma, era in realtà già dentro la struttura narrativa del documentario — ma allora non sarebbe stato più appropriato includerla in maniera più organica e trasparente?

La rapida liquidazione delle ragioni — mutevoli, complesse, variegate — che inducono all’assunzione di droghe rivela poi un limite che, lungi dal limitarsi a SanPa, sembra estendersi anche ad altre produzioni simili (penso a Wild Wild Country — d’altronde per questo genere di documentari Netflix molto attenti allo choc a dispetto dell’approfondimento dei contesti si è parlato di “WTF documentaries”, descrivendo la strategia con la reazione di pancia, pronta per il meme: what the fuck??). La paura, neanche troppo recondita, è che le ragioni possano suonare familiari, forse persino degne di considerazione da parte nostra. Giovanni Jervis l’aveva già capito nel ’76: “Nel respingere la droga come colpa e pericolo, ognuno esorcizza il pericolo della propria colpa”. Ancora più in profondità, a terrorizzare non sono tanto gli stupefacenti come mezzo, ma il fine verso il quale vengono utilizzati: la droga è una risposta certamente fallimentare, ma se le domande che solleva fossero giuste? Nel tossicodipendente c’è spesso un desiderio impetuoso, che anche volendo ormai faticherebbe a essere nascosto: quello di una vita vera, autentica — che poi è sempre, come aveva intuito l’ultimo Michel Foucault, una vita altra. Ciò che oggi continua a rendere attraenti, in modi più subdoli ma non necessariamente meno devastanti, sostanze come l’eroina e la cocaina è in parte proprio il rifiuto di fronteggiare a viso aperto la voglia di un mondo migliore, più ospitale, meno violento — e purtroppo anche su questo fronte SanPa svicola, dice e non dice.

La mia generazione a tal proposito è già visibilmente meno ambiziosa di quella di coloro che animano il documentario: in pochi anni la dipendenza più comune che potremmo trovarci ad affrontare è quella da antidepressivi — sostanze che non si assumono più neanche per sentire di bastare a sé stessi, ma per limitare i danni, per alzare la nostra soglia del dolore psichico, per continuare ad arrancare dentro esistenze che non sopportiamo. È una dipendenza di cui scientificamente sappiamo ancora poco, e anche per questo non meno inquietante di quelle con una storia più lunga (alle quali, del resto, può andarsi a sommare). Di fronte ad essa — è questo, a mio avviso, l’appuntamento tra generazioni di cui si diceva all’inizio — il punto di partenza non può che coincidere con la riappropriazione più radicale possibile del motto lacaniano: non cedere sul proprio desiderio, non ripiegare sulla velenosa imitazione offerta dagli stupefacenti.

Non so quale sia il format migliore per imbastire delle narrazioni, sulle droghe come sui temi più disparati, che siano desideranti in tale accezione — se ad esempio un discorso di rottura di questo tipo possa risultare compatibile con la tendenza monopolistica del capitalismo delle piattaforme di cui Netflix è espressione, che pare dover sempre accontentare tutti e tende a ridurre la raffigurazione di una vita altra a un surrogato da acquistare nel reparto prodotti esotici. SanPa ha il coraggio di provare a offrire una risposta a questo interrogativo — e il merito enorme di aver dato visibilità a delle storie che per troppo tempo erano state silenziate. Guai, però, a considerarla un punto di arrivo, a ritenerla (come già si legge da più parti) uno mero standard da imitare. Un paio di anni fa un prodotto generalista di questo livello sarebbe stato giudicato impossibile — con lo stesso spirito si deve e si può fare di meglio in futuro. Nel caso specifico, occorrerà continuare ad ascoltare le tante testimonianze che sulla San Patrignano dei primi decenni e altre realtà simili devono ancora venire raccontate, senza l’illusione che l’obiettivo sia farle diventare puro intrattenimento. Occorre lasciarsi disturbare da certe narrazioni, sperimentarne il potere urticante. Lo dobbiamo a chi non è sopravvissuto, come Natalia Berla e Roberto Maranzano, ma anche a quanti si sono salvati e hanno avuto il coraggio di ricordare.

[Apparso su Il Tascabile il 26 gennaio 2021]

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Franco Palazzi

PhD in philosophy at the University of Essex. Author of Tempo Presente (ombre corte 2019) and La politica della rabbia (nottetempo 2021).