L’etnografia ferroviaria di Alain Elkann

Franco Palazzi
8 min readDec 27, 2023

[Apparso su L’Indiscreto il 26 luglio 2023]

In un testo del 1971, l’antropologo Claude Lévi-Strauss utilizzava una similitudine che sarebbe divenuta celebre: le culture tra loro differenti sono come dei treni «che circolano più o meno in fretta, ognuno sul suo binario e tutti in direzioni diverse». Ciò implicherebbe che la conoscenza di culture la cui ‘direzione’ è opposta o comunque obliqua rispetto alla propria sia necessariamente limitata: «non ne ricaveremo che un’immagine confusa e fugace, a stento identificabile, per lo più ridotta ad un puro oscuramento momentaneo del nostro campo visuale, che non ci fornisce alcuna informazione su quanto avviene ma ci irrita soltanto, perché interrompe la placida contemplazione del paesaggio». Le implicazioni potenzialmente reazionarie di osservazioni simili non erano passate inosservate al meeting dell’UNESCO in cui erano state originariamente presentate, mentre nel 1986 Clifford Geertz sosteneva un ribaltamento dell’approccio di Lévi-Strauss: trattare le culture come monadi isolate impedisce di utilizzare le risorse di culture differenti per guardare criticamente alla propria; omette di considerare che la differenza e l’alterità non cominciano ai confini statali ma già ai margini del nostro corpo (possono esserci maggiori differenze culturali tra noi e un nostro connazionale che tra noi e una persona straniera); risulta del tutto impraticabile in un contesto storico in cui le migrazioni, le diaspore e il sincretismo sono la norma.

Se l’immagine del passeggero comodamente seduto vicino al finestrino correva il rischio di venire impiegata, contrariamente alle intenzioni del suo autore, a difesa di quelli che Fred Nadel aveva chiamato antropologi da poltrona («che usano e interpretano dati raccolti da altri»), il treno può anche essere visto come un luogo privilegiato per quell’incontro con un’alterità culturale che, parafrasando Geertz, a volte non è che a un bracciolo di distanza. È di una lezione di questo tipo che il giornalista e scrittore Alain Elkann sembra aver fatto tesoro in un recente articolo apparso su Repubblica, il cui contenuto merita di venire analizzato con ordine.

Elkann racconta di un recente viaggio compiuto su un treno Italo da Roma a Foggia. Da antropologo avvezzo al lavoro sul campo, descrive anzitutto il punto di osservazione prescelto: carrozza di prima classe, posto — nemmeno a farlo di proposito — accanto al finestrino. Fornisce poi un quadro del contesto che enfatizza, procedendo dal più al meno prossimo, la sua ragguardevole capacità di osservazione: non solo descrive il passeggero che gli sta di fianco (un ragazzo biondo di sedici-diciassette anni, vestito con t-shirt bianca, pantaloncini neri, scarpe Nike e cappellino con la visiera, in mano l’immancabile iPhone), ma nota che i coetanei di quello seduti nelle file anteriori e posteriori «avevano tutti o le braccia o le gambe o il collo con tatuaggi piuttosto grossi». Meglio ancora: riesce a dirci persino che nessuno di loro, tutti egualmente muniti di iPhone, indossava l’orologio (informazione per ricavare la quale Elkann deve essersi alzato svariate volte nel corso delle tre ore di viaggio).

Potremmo aspettarci che a questo punto Elkann, che ha settantatré anni, avvii un qualche tipo di conversazione con i giovani attorno a lui e ne derivi delle note di campo sulle differenze e le somiglianze culturali tra generazioni — ma egli attende sapientemente, descrivendoci invece gli strumenti che ha portato per la propria ricerca. Innanzitutto un abito di lino blu, «malgrado il caldo». Poi una cartella di cuoio marrone che contiene il Financial Times del weekend, il New York Times e l’inserto di Repubblica, Robinson. È difficile non dedurre, da questi pochi ma significativi particolari, che Elkann voglia improntare l’interazione con i giovani al centro del suo studio al massimo straniamento possibile. In condizioni normali, non avrebbe alcun senso indossare un abito giacca e pantaloni nel caldo torrido di luglio, né portarsi dietro Robinson nella prima classe di Italo, dove il medesimo periodico può essere letto gratuitamente in versione sia digitale sia cartacea. Quanto al New York Times, in Italia è notoriamente possibile procurarsene copie a stampa solo dei numeri dei giorni precedenti — Elkann non avrebbe ragioni di non leggerne quello più recente su internet, se non intendesse giocare sullo scarto prodotto tra il proprio armamentario ostentatamente novecentesco e gli smartphone dei giovani passeggeri.

Questo ragionamento pare suffragato dal dettaglio successivo: il giornalista ha con sé anche una copia dell’edizione francese della Recherche, in particolare di Sodoma e Gomorra, ma ci mostra un approccio distratto nei confronti del testo, come se volesse servirsene soprattutto come oggetto di scena: sostiene infatti che si tratterebbe di un «capitolo» della celebre opera di Proust tratto dal «secondo volume» di quella, ma Elkann — che è stato insignito della Legion d’Onore francese — sa perfettamente che Sodoma e Gomorra non è un capitolo, ma un volume a sé stante, il quarto, della Recherche — ciò che egli intende dire è che possiede un’edizione (punterei sulla Pléiade) che raggruppa i sette volumi in un numero più ridotto di tomi, di cui ha con sé il secondo.

La conferma definitiva dell’intenzionale strumentalità delle props utilizzate da Elkann giunge forse con l’aggiunta seguente: nel corso di un tragitto di centottanta minuti nel quale, stando a quanto sostiene il vettore, gli sono pure stati offerti «caffè, tè, acqua, succhi, soft drinks, snack dolci e salati», il giornalista avverte il bisogno di tirar fuori, oltre a due quotidiani, un inserto culturale e a un tomo di Proust, un quaderno e una stilografica per scrivere il proprio «diario».

I ragazzi, tuttavia, non sembrano nutrire interesse per i tanti oggetti che Elkann ha vistosamente disposto intorno a loro: parlano di calcio a voce alta e «con un linguaggio privo di inibizioni», ascoltano musica con le cuffie dell’iPhone, consumano Coca-Cola e tè freddo in lattina. È a questo punto che le osservazioni dell’antropologo prendono una piega inattesa, quasi girassero a vuoto: l’autore prova a farci credere che, su un treno dove display e messaggi acustici ricordano in continuazione le fermate di transito e quella di arrivo, egli abbia dubitato di trovarsi nel convoglio giusto («non sapevo che per andare da Roma a Foggia si dovesse passare da Caserta e poi da Benevento»). Queste parole provengono peraltro dal passeggero meno provinciale che si possa immaginare: Elkann è nato a New York da padre francese e madre italiana, ha scritto un libro-intervista con il principe di Giordania Hassan bin Talal, ha viaggiato in lungo e in largo. A quale tipo di studio antropologico stiamo dunque assistendo?

Ne La Camera Chiara, Roland Barthes chiamava punctum quel dettaglio di una fotografia che, partendo dall’immagine, trafigge come una freccia chi la guarda. La stessa funzione viene svolta, nell’articolo di Elkann, da una frase attribuita a uno dei suoi giovani compagni di viaggio: «“Non è che dobbiamo stare soli di sera: andiamo a cercare ragazze nei night”». Basta il pensiero di un ragazzo di quindici o vent’anni che si riferisce a un locale aperto fino a tardi con il termine “night” per avvertire un tipo peculiare di puntura barthesiana: se il punctum, come ha sostenuto Hal Foster, può essere messo al servizio di forme di truth-telling tutt’altro che scontate, in questo caso pungente è l’elemento che squarcia il cielo di cartone, che dimostra con la sua inverosimiglianza il carattere fittizio di quanto stiamo leggendo. Se i ragazzi non esistono realmente, perlomeno non come ci sono stati presentati, chi è che Elkann sta osservando dal suo sedile accanto al finestrino?

Come mostra il prosieguo dell’articolo, egli è solo: «Loro erano totalmente indifferenti a me, alla mia persona, come se fossi un’entità trasparente, un altro mondo». Non è la cultura di una generazione diversa che il giornalista voleva indagare, ma la propria — il suo studio è un auto-etnografia, nella quale chi scrive è sia la persona che conduce la ricerca sia l’oggetto della ricerca stessa.

Ad aver prestato più attenzione ad alcuni dettagli, lo si sarebbe potuto intuire anche prima: Alain Elkann è il padre di John Elkann, l’editore del quotidiano su cui l’articolo in questione viene pubblicato. Ecco allora che quell’accostamento insolito tra due dei principali quotidiani in lingua inglese e un supplemento di Repubblica già offriva un potenziale punctum, segnalando forse il senso di inferiorità dei vertici dei grandi gruppi editoriali italiani dovuto alla consapevolezza del proprio provincialismo.

Le parole del giornalista-etnografo vanno lette allora su un doppio livello, reso possibile da un raffinato esercizio di depersonalizzazione letteraria: Alain Elkann non scrive in quanto individuo, ma in quanto appartenente a una classe — sociale, culturale, di età. L’operazione è del resto sottolineata dal ricorso a una serie di espedienti stilistici: il pleonasmo rivelatore «marziano venuto da un altro mondo» evidenzia lo sfaldarsi dell’io scrivente; l’inserzione di segni di punteggiatura apparentemente fuori posto («intanto il treno, era arrivato a Caserta») rende sincopato il ritmo di una viaggio che ormai è soprattutto interiore.

C’è da immaginare che un intellettuale come Elkann conosca — e in lingua originale — il contenuto della missiva che Marx indirizzò a Weydemeyer il 5 marzo 1852, in cui consigliava ai «signori democratici en général» di «prendere coscienza della letteratura borghese», in particolare delle opere storiche di Thierry, Guizot e Wade, i quali molto tempo prima dello stesso Moro avevano descritto, ovviamente dalla loro prospettiva, «lo sviluppo storico della lotta delle classi». Se Marx metteva in evidenza con acume come i membri della classe dominante possano arrivare a intuire le dinamiche che porranno fine al loro dominio prima ancora dei dominati, Elkann offre il proprio specifico posizionamento sociale come piattaforma per osservare il declino della stessa tipologia di redditieri a cui appartiene. Alain Elkann proviene infatti da due famiglie di banchieri ed è stato sposato con Margherita Agnelli, a sua volta figlia dell’allora patron della FIAT, Gianni. Priva sia dello spirito pioneristico per l’accumulazione selvaggia della precedente, sia della brutale mancanza di fronzoli di quella successiva, la generazione di Alain Elkann incarna un tipo capitalismo ormai al tramonto, che si ammantava dei segni della distinzione culturale per cui i più anziani capitani d’industria non avevano avuto tempo e i quarantenni rampanti di oggi non hanno mai sentito il desiderio, né tantomeno il bisogno.

Elkann è decisamente troppo intelligente per prendersela, dalle colonne del giornale di famiglia, con dei sedicenni rei di dire parolacce. L’incomunicabilità che avverte nei confronti dei giovani passeggeri di Italo è a ben vedere a senso unico: è l’anziano Elkann che si sente «inesistente: qualcuno che usava carta e penna, che leggeva giornali in inglese e poi un libro in francese con la giacca e i pantaloni lunghi». Avrebbe potuto avvertire la medesima, totale mancanza di riconoscimento provenire da un qualunque giovane miliardario.

Risulta allora sintomatico il vocabolo che il giornalista-etnografo impiega per bollare quei giovanotti maleducati con l’accento del nord: «lanzichenecchi», letteralmente mercenari tedeschi impiegati dagli eserciti europei tra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo. Si tratterebbe cioè di piccoloborghesi, di gregari, di persone rozze prive dei segni distintivi dell’alta borghesia, ma è una metafora destituita di ogni fondamento: come ci ricordano figure che vanno da Flavio Briatore a Elon Musk, da Jeff Bezos a Donald Trump, gli altoborghesi che hanno dominato negli ultimi decenni possiedono un immaginario e una cultura che sono quanto di più piccoloborghese possa esistere agli occhi di un Alain Elkann. I ragazzini con le Nike — limited edition, s’intende — che viaggiano imprecando in prima classe potrebbero essere tranquillamente i nipoti di Berlusconi, o dello stesso Elkann.

Con il modello di ricchezza che i ragazzi di fantasia dell’articolo rappresentano per metonimia non è possibile neppure un sano conflitto generazionale — quel conflitto che può ancora essere fonte di riconoscimento. Come ha scritto Judith Butler, se si è invisibili non si può prendere parte alla lotta per il riconoscimento, nemmeno dal lato perdente o comunque sfavorito; un messaggio che Elkann comunica da par suo nella chiusa tragicomica dell’articolo, un po’ Groucho Marx e un po’ Ralph Ellison: «nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano e io non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani “lanzichenecchi” senza nome». Come se ci si potesse offendere per il mancato saluto di un uomo invisibile, che ormai non ha nulla di meglio da fare, per venire notato, che prendersela col fantoccio dei giovani d’oggi.

Un’auto-etnografia spietata, quella di Elkann, la cui collocazione editoriale rende ancora più struggente il senso di malinconia, di autocancellazione: quel capitalismo intellettuale e mecenate che controlla le quotazioni di borsa mentre rilegge la Recherche è solo uno specchietto per le allodole — un trucco di cui un giorno non lontano non ci sarà più alcun bisogno. A volte basta il sedile di un treno, per intravedere la morte annunciata di una cultura.

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Franco Palazzi

PhD in philosophy at the University of Essex. Author of Tempo Presente (ombre corte 2019) and La politica della rabbia (nottetempo 2021).