Appunti su guerra e diserzione

[Apparso su Le parole e le cose il 30 marzo 2022]

Franco Palazzi
7 min readMar 30, 2022

I Trasparenza ≠ pubblicità

Nessuno di noi ne sa abbastanza. Le trattative tra stati sono il contesto più tipico per l’esercizio di una forma di potere che deve essere invisibile per funzionare e non sottostare agli abituali pesi e contrappesi per rendersi invisibile.

Alla mancanza di pubblicità i grandi media reagiscono con un’enfasi pornografica sulla trasparenza: esplosioni in diretta, speciali non-stop, passeggiate tra le macerie. Come ogni altro genere di pornografia, l’infotainment di guerra non può mai aggirare del tutto il dubbio della simulazione: il piacere che vediamo è reale? Chi e cosa c’era esattamente sotto quelle macerie? Ogni regime visuale pornografico si fonda su un interrogativo a cui non può dare risposta.

La democrazia è un regime antipornografico: ha bisogno di pubblicità, non di trasparenza.

II Uomo ≠ stato

Se tanta politica in tempo di pace è affetta da nazionalismo metodologico (l’illusione che l’unica società sia quella nazionale), in tempo di guerra serpeggia il leaderismo metodologico: leader x = stato y = tutta la popolazione dello stato y (e magari la sua storia, la sua cultura politica e non…). In modo controintuitivo, il leaderismo metodologico si applica con determinazione inversamente proporzionale alla rappresentatività democratica dell’uomo in questione: più si avvicina a essere un autocrate e più si tende a farlo coincidere con il “suo” stato.

Si dirà: in tempo di guerra contano gli eserciti, non l’elettorato e men che meno gli abitanti; ma illudersi che un uomo, solitamente neppure un militare, corrisponda perfettamente a un esercito è appena meno folle del credere che corrisponda a uno stato.

Ridurre lo stato a singoli uomini consente di ridurre la geopolitica a psicologia individuale, così come ridurre gli uomini a pupazzi permette di ridurla a teoria dei giochi. Questo, per converso, non fa che alimentare l’arroganza con cui i singoli in posizione apicale pensano di corrispondere agli stati, o di poter disporre degli eserciti.

III Stato ≠ unità (massima, minima, fondamentale, funzionale)

Lo stato non è un’illusione ottica, ma (tra le altre cose) una soglia: tutto ciò che volge da una parte, che aspiri a essere più ampio, sarebbe utopia; tutto ciò che guarda dall’altra, che aspiri a essere più stretto, sarebbe nostalgia. Da quella soglia sbirciamo il mondo. Fa parte della mitologia dello stato credere che esso sia la condizione di possibilità della politica, un’unità non scomponibile né ulteriormente assemblabile. Eppure tutti gli stati costituiti sono stati potenze costituenti — ma pochi di essi se ne ricordano.

Fingere che gli stati siano uomini rianima lo stato più posticcio che ci sia: quello di natura. È per proteggerci da uno stato di natura costruito in modo del tutto culturale che l’idea di stato-nazione sostiene di domandare obbedienza. La medesima obbedienza in forza della quale, in tempo di guerra, certi “uomini di stato” vorrebbero riportarci nei pressi del presunto stato di natura (e se almeno nella finzione “naturale” precedente potevamo morire per conto nostro, ora dovremmo morire per chi ci dà ordini).

IV Spegnere il cero della teologia politica

Si dirà: niente di nuovo, è la struttura paradossale della sovranità, il bisogno misterioso degli esseri umani di sottomettersi allo stesso dio che hanno inventato. Guardare oltre lo stato significherebbe allora pensare l’impensabile, fare i conti con la vertigine di chi ha ucciso dio e via così, tra fumi d’incenso.

Sono discorsi da sacrestia, di cui non abbiamo bisogno.

Viviamo in un mondo di stati e la nostra vita è probabilmente troppo breve per vederne uno senza. Quello che possiamo decidere è che non siamo disposti a morire per lo stato — men che meno per qualche uomo che creda di racchiuderlo in sé. Morire ha senso solo per delle persone (la nostra persona, coloro che amiamo, persone che neppure conosciamo…). Se gli intransigenti morissero davvero per un’idea, sarebbero dei semplici sciocchi — essi muoiono per coloro che serberanno quell’idea, che le daranno forza.

Morire per lo stato può avere senso solo nei casi, non molti, in cui esso è un’efficace approssimazione di un certo gruppo di persone e non c’è altro modo per salvarle.

V Entre Monsieur le Capital

Ai ragazzi russi ritrovatisi in un attimo dal servizio militare al fronte di una guerra d’invasione pare che abbiano promesso una piccola pensione. Non sarà però la guerra che combattono a mettere il “loro” stato nelle condizioni di pagare per la pensione — questa guerra, anche a vincerla sul campo, avrà sull’economia di quello stato solo conseguenze negative. Non potrebbero, allora, avere la pensione senza uccidere e rischiare di essere uccisi?

L’interrogativo solleva il sospetto che dietro il palcoscenico su cui qualche mitomane recita il ruolo dello stato vi sia dell’altro. Tuttavia commetteremmo una volta di più lo stesso errore se riducessimo il primo monologo a un secondo, il pupazzo a un fantomatico burattinaio.

Gli stati contemporanei sono la scala, la dimensione più efficiente che il capitale ha per catturare la cooperazione sociale, per incatenare la potenza collettiva a rapporti di produzione e regimi di proprietà che lasciano la maggior parte di noi nella condizione di valutare l’offerta di una piccola pensione in cambio della nostra esistenza e di quella altrui. Il capitale è l’unico di cui si possa dire, all’inizio di ogni guerra, che non la perderà.

VI Disertare, resistere

Gli unici criminali a cui non sono stati dedicati monumenti di stato, né mai potrebbero esserlo, sono i disertori. Dal punto di vista della “ragion di stato”, disertare è un atto incomprensibile, non a caso tacciato di “follia”. Chi diserta non è un free rider, o un evasore fiscale: può senza contraddizione essere qualcuno che adempie a tutti i propri obblighi nei confronti dello stato meno che al più fondamentale e arbitrario, su cui riposa la presunta indiscutibilità di tutti gli altri — quello di voler dare la propria vita per esso.

Se l’idea di stato vuole talvolta giustificare la propria esistenza con una rozza analisi costi-benefici, il disertore la supera in astuzia al suo stesso gioco: nulla che lo stato possa fargli è peggio che mandarlo a uccidere ed essere ucciso. La diserzione è la forma ultima del diritto di resistenza, vale a dire la resistenza che scavalca ogni diritto statuale.

Le collettività organizzate che, storicamente, hanno tentato di fare altrimenti, non hanno ottenuto “riconoscimento” (un termine che è sensuale e mnemonico molto prima che giuridico) in quanto entità statuali. Troppo prossime a una comunità di persone per cui valga la pena vivere (e morire), sono le uniche a non aver bisogno di obbligare a combattere per loro — svanirebbero nel momento stesso in cui non ci si alzasse spontaneamente a loro difesa.

Massimamente radicale è la diserzione della disertrice. “Donne e bambini” sono la controparte dei soldati nell’economia di genere ed età della guerra. Non perché non vi siano combattenti donne o giovanissime, ma perché forniscono supporto simbolico all’ideologia del sacrificio che invoca la morte per la vita, che chiede di immolare il presente a un generico futuro migliore — che sarà tanto più generico quanto minori saranno le probabilità di abitarlo. Di vecchie e vecchi non si fa menzione, perché svelerebbero il trucco: nessuno potrebbe chiedere alla giovinezza di sacrificarsi per la sterilità della vecchiaia, eppure la seconda merita di vivere non meno della prima. Rifiutando il suo ruolo di proprietà da proteggere al pari del suolo o delle case, la disertrice sfida la gerarchia fra le vite opponendosi a una guerra che pure non la chiama direttamente al fronte. Così facendo, mostra la via di fuga per la quale tutte e tutti possono opporsi alla guerra.

Fuggire non è un gesto passivo, di rinuncia, ma un’azione: indica una dinamica che è spesso fisica, e comunque sempre interiore. La fuga comporta la presenza di un altrove — di un luogo o anche solo di un’utopia — che stia a ricordare che lo stato non è totalità, ma soglia: se ne può scappare dal di fuori come dal didentro.

L’altrove non è però mai perfettamente costituito né immutabile, non può restare indifferente all’arrivo dei fuggiaschi. La fuga è quindi un’azione dal potenziale istituente — i monaci che un tempo si dicevano “fuggire dal mondo” creavano nei monasteri il loro mondo.

Pretendere di offrire a chi fugge un approdo preordinato e immobile, al massimo l’assimilazione in uno stato preesistente (un capitalistico stato di cose, non di persone) o in qualche plebiscitaria volontà generale rappresenterebbe perciò il tradimento della natura attiva della fuga, la sua tendenza al decentramento. Il diritto di fuga è anche la fuga dal diritto statuale sulle nostre vite.

VIII Umiltà

Non esistono doveri di fuga, né si può costringere qualcuno a fuggire — la fuga cesserebbe altrimenti di essere un diritto. Occorre farsi umili di fronte a un potenziale fuggiasco, coltivare degli altrove che gli aprano le porte senza domandargli la vita in cambio.

A chi non intende fuggire bisogna restituire l’opportunità di combattere per delle persone — non per i loro stati, non per le nostre idee.

A quanti aggrediscono va ricordato che esiste un’alternativa all’umiltà obbediente che li vorrebbe pronti a diventare e a rendere altri concime, che sono gli unici a poter usare la propria vita. C’è un’umiltà di chi non è disposto a finire sotto terra anzitempo, che è contro la guerra ma non contro la violenza necessaria a disertare, o a difendersi. La violenza di chi, aggredendo, dà avvio a una guerra, è sempre impersonale: non nasce per uccidere singole persone, ma solo membri di un gruppo, cifre in un insieme. Chi usa violenza per difendersi non può evitare di prendere quella violenza sul personale: sa bene per quali vite sta combattendo, a cominciare dalla propria.

È umiltà anche quella di chi per accogliere o fuggire calpesta confini e pretese di proprietà, butta giù le porte di case vuote di persone e nazioni vuote di senso, mostrando quel che c’è sotto: nient’altro che polvere e terra.

Originally published at https://www.leparoleelecose.it on March 30, 2022.

--

--

Franco Palazzi

PhD in philosophy at the University of Essex. Author of Tempo Presente (ombre corte 2019) and La politica della rabbia (nottetempo 2021).